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Cassiano è un paesino di poche centinaia di anime, che giace in una pittoresca, vasta valle ancora non intaccata dalla presenza della modernità, nel cuore delle Alpi Orientali. La gente campa di tradizioni millenarie, vivendo in armonia, come in una grande famiglia. Il protagonista, Giovanni, è sposato con Rita, costretta all’immobilità a letto per una malattia degenerativa.
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C’è la locanda con la piacente gestrice quarantenne, Caterina, vedova, aiutata dalla giovane Lucina. Ci sono i giovani, spericolati Domenico e Antonio, gemelli inseparabili. C’è Ottavio, che ha girato il mondo e attraversato fortune e grandi rovesci, restando sempre un inguaribile ottimista, il quasi centenario Isaia e tanti ancora. Gente semplice che convive con miti e leggende tipiche di quei luoghi, storie che riuniscono paganesimo e sacralità in un inviolabile alone di mistero; gente che non chiede altro dalla vita che il duro lavoro e la pace per sé e per gli altri. E’ in buona fede, per bonaria ingenuità, che questi personaggi consegneranno la loro valle fatata alle tenaglie stringenti di un progresso senza scrupoli. Il paesaggio viene sconvolto in pochi mesi. Le montagne, forate e attraversate da gallerie. I corsi d’acqua, deviati. Le stradine, sostituite da grandi strade asfaltate e percorse da mezzi pesanti Un cantiere che lavora a tempo pieno. Lo scopo è quello di costruire una diga, enorme, altissima, la più grande che si sia mai vista. Per questo, Cassiano viene letteralmente “spostata” più in alto; il vecchio paese viene sommerso da un lago artificiale e agli abitanti vengono assegnate case completamente nuove. All’inizio, il cambiamento viene visto positivamente: nuovi posti di lavoro, più facilità di collegamenti, il bello del progresso; tutti o quasi s’impiegano in cantiere, agli ordini di un Ingegnere vulcanico e superattivo. Solo Siro, che rifiuta tutto questo, nostalgico fondamentalista di un passato che non può tornare, si rifugia in una baita in cima ai monti, condannandosi all’eremitaggio. Meglio non svelare altro, a questo punto. Quella che sembra una situazione ben definita s’evolverà imprevedibilmente, raccontata dalla figura posata, riflessiva di Giovanni, “il ricercatore continuo”, come s’autodefinisce, personaggio ben conscio di quanto tutto sia relativo e precario, ma soprattutto sia questione di tempo. E la narrazione è crudelmente efficace, nel mostrare la sofferenza fisica e morale degli abitanti della valle, i quali solo col tempo si rendono conto di quanto stanno perdendo. Ossia un mondo che è stato cancellato per sempre sotto i loro occhi, tradizioni e storia risucchiate via dall'onda anomala (sarà proprio il caso di dirlo) di un futuro che non avrebbero immaginato tanto devastante. La lenta, inesorabile erezione della diga è la nuova Torre di Babele, la sfida presuntuosa ed incosciente alla natura, la quale però troverà sempre il modo di riaffermarsi, e quando se ne conoscerà il prezzo da pagare sarà evidentemente assai tardi. Una sorta di cupa predestinazione aleggia nelle pieghe più nascoste delle vite dei protagonisti, ognuno dei quali nasconde dolori all'anima che sono sedimentati e paiono assorbiti, ma non smettono di tormentare, specie nella figura dell'ingegnere e del suo assistente, Augusto. Ma anche nella lucida rassegnazione di Rita, nell’inflessibile integralismo di Siro, nell’amarezza di Isaia che rimpiange “d’aver troppo visto e vissuto”, e per colmo di ironia se ne andrà nel momento peggiore. Le figure che maggiormente prenderanno forza nel finale, in modo specifico Caterina e Giovanni, diventeranno i mezzi tramite i quali l'autore s'erge a coscienza critica d'un certo tipo d'avvenire cui l'uomo va incontro, o meglio cui, purtroppo, forse l'uomo s'è già consegnato, con conseguenze difficilmente calcolabili.