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Il percorso creativo di Boris Pahor, scrittore sloveno e cittadino italiano, ruota in prevalenza intorno al destino della gente slovena nel Novecento e alle suggestioni di una città elusiva e ammaliatrice come Trieste.
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La prima di queste opere è la raccolta di racconti "Il rogo nel porto", che non solo lievita ai livelli più alti della grande letteratura europea ma prelude a quasi tutta la restante produzione dell'autore quanto a temi e motivi ispiratori, restituendo al lettore italiano aspetti della storia contemporanea dimenticati o colpevolmente rimossi: le vicissitudini della comunità slovena sotto il fascismo, la difesa di un'identità culturale brutalmente conculcata, la violenza che investe umiliati e offesi di dostoevskijana memoria e annuncia l'orrore delle deportazioni nei campi di sterminio. Tre sono i nuclei generativi - tutti direttamente o indirettamente autobiografici - dei racconti: il mondo dell'infanzia, l'esperienza del lager (descritto una dolente potenza espressiva tale da ricondurci alla raccapricciante grandezza di "Necropoli") e il faticoso, straniante ritorno nella città natale, Trieste, dopo la guerra e la detenzione nei lager nazisti. Lo sfondo, a parte il ciclo del lager, è il medesimo: la città di Trieste, le cui architetture e stagioni, i cui colori e paesaggi fatti di piogge ventose, iridescenze marine e barbagli di pietra carsica sono rievocati con un lirismo visionario intriso di potenti metafore.