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Emerge, la femme fatale, da un secolo morigerato, l'Ottocento. S'accampa nelle pagine di una letteratura - i cui testi vanno dai Tre moschettieri ai romanzi di D'Annunzio - destinata più al comune sentire che alla trasgressione.
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Vive fino alla Grande Guerra, "il crepuscolo di un mondo", e non per caso è forse una donna fatale la "giovane signora snella, con un vestito marrone da viaggio ad ampia tournure, con un cappellino di paglia ornato a pallottoline che non rius-civa a nascondere la maliziosa avvenenza del volto" ma che viene a prendere il Gattopardo nel delirio dell'agonia, "più bella di come mai l'avesse vista negli spazi stellari", in quel tardo romanzo in cui il passato entra nel presente a ever-sione del tempo e dell'oggi. La fenomenologia della donna fatale che in queste pagine traccia Scaraffia, permette di schizzarne il ritratto: è nordica, borghese, prossima al gelo della morte quanto le estasi controriformistiche che le si con-trappongono, latine e aristocratiche, somigliano alla voluttà. Ed è, in questa linea, suggestiva una ipotesi, che il mito trasfiguri quei dibattiti, di campo calvinista e giansenista, sulla predestinazione e la grazia, in cui il peccato è presenza indifferente alle opere dell'uomo, e si contende l'anima in una lotta che è angoscia senza tempo.
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